Nei giorni in cui l’afa raggiunge l’apice in Italia, io mi ritrovo in Oriente ed uscire all’aperto, tante volte, è come aprire un forno e una zaffata di calore ti investe. Decido di comprarmi un ventaglio. Posso provare così a combattere la calura di questi giorni, quando non cammino sottoterra, qui tutto è un efficiente e condizionato sistema di treni e metropolitane, le cui uscite sono anche in tanti centri commerciali. Tutti i luoghi chiusi, con l’aria condizionata sparata a palla, mi sembrano un’ancora di salvezza, così come mangiare cubetti di ghiaccio: sono questi i miei piccoli rimedi per sopravvivere.
Sono qui per lavoro e, come in passato, mi aspettavo che la mia permanenza a Tokyo sarebbe scorsa un pellegrinaggio di pizzerie e ristoranti italiani, invece il mio programma, stavolta, include delle piacevoli novità che mi stanno permettendo di conoscere il Giappone un po’ meglio.
Domenica sera cena in uno dei locali di Ginza specializzato in shabu shabu.
Qualche giorno dopo, oramai ad Osaka, ho appreso che trattasi non di una cucina tradizionale di origine antica, la carne, infatti, non faceva parte della cultura buddista. Il Giappone, fino al 1886 era un posto interdetto agli stranieri e, solo con l’apertura delle frontiere e l’arrivo degli occidentali, la carne comincia ad apparire sulle tavole. Per preparare lo shabu shabu servono tagli di carne sottili, un poco più spessi delle fette di prosciutto, e la cottura è in acqua bollente, in pentole di rame, tante volte assieme alle verdure.
La carne non viene completamente immersa, ma quasi lasciata scottare, mentre viene tenuta, con le bacchette, quasi sospesa ed è il suo sfrigolio a produrre lo strano suono che ha dato il nome di shabu shabu a questa preparazione.
Mi spiega tutto questo Yuki, giovane e colto venditore dell’importatore di Terredora in Giappone, che parla un perfetto italiano, grazie ad un soggiorno presso l’università per stranieri a Perugia, avvenuto durante la sua permanenza a Londra dove ha ottenuto una laurea in economia. Il ragazzo è un piccolo portento per le lingue, sta, infatti, provando ad imparare anche il cinese, anche se mi racconta che gli occorrerebbe vivere un po’ di mesi in Cina, ma le ferie, qui, sono solo qualche giorno l’anno, il loro è, infatti, un calendario caratterizzato da una festività tutti i mesi, e dunque le vacanze sono brevi.
Grazie alle conversazioni con lui, capisco qualcosa di più anche dello strano rapporto del Giappone con la Cina, la cui cultura e la cui potenza antica ha egemonizzato anche quest’area fino al. 7/8.secolo d.c..
Mentre in treno raggiungiamo da Kyoto la città di Osaka, mi spiega che alcuni degli ideogramma con cui scrivono sono cinesi, così come hanno ben tre tipi di alfabeti, di cui solo due, fatti ideogramma più semplici, sono fonetici. Scrivere con un alfabeto fonetico, però, in Giappone non tradisce, affatto, un livello alto di scolarizzazione, che hai, invece, se scrivi anche con ideogramma cinesi. È ovvio, dunque, il perché, spesso, gli stranieri parlino giapponese, ma non lo sappiano scrivere bene, devi cominciare presto se vuoi poter familiarizzare con questa giungla di segni.
Di conversazione in conversazione apprezzo sempre più le opportunità di questa full immersione di cultura nipponica.
Il lunedì sera, per cena, ancora un ristorante giapponese, tradizionale anche nelle frequentazioni.
Quando arriviamo, fra gli avventori, tutti in grisaglia e camicia bianca d’ordinanza, era seduta una sola donna, chiaramente in compagnia di un signore.
La cena è un viaggio attraverso il Giappone e i suoi sapori che cerco di immortalare con le mie foto. Prendo anche un bel po’ di appunti tanto da attirare l’attenzione dello chef. Alla fine questi si convince che sono una giornalista e si prodiga a darmi tutta una serie di informazioni. La mia vera guida, attraverso i cibi di questa serata, è però Hayashi, giapponese che ha vissuto per un lungo periodo in Italia e che, da qualche anno, è tornato nel paese del Sol Levante.
Se a Milano, orami tanti anni fa, ha introdotto gli italiani ai segreti della cucina giapponese, qui prova a far conoscere il vino italiano ai giapponesi.
Nei locali tradizionali domina infatti la birra locale, meno amara delle varianti europee più cariche di luppolo così come non manca il sakè, liquore prodotto dalla fermentazione del riso, amato dalle persone più anziane, mentre i giovani bevono shochu, un fermentato di riso e patate, più alcolico del sakè. Eppure la contaminazione, piano piano, avanza tant’è che anche qui troviamo la carta dei vini, non emozionantissima per la verità, ma ciò che importa è che è caduta una preclusione culturale e che possiamo provare a presentare i nostri vini.
Di piatto in piatto con Hayashi decidiamo di sfidarci provando a suggerire degli abbinamenti cibo vino in una duplice chiave di lettura: vini Terredora e vini italiani.
Quello che mi sorprende è che il menù non si caratterizza per la classica progressione di gusto, ma è come un giro sulle montagne russe. Capisco, però, subito che parlare solo di sushi, sashimi e tempura è riduttivo come dire che la cucina italiana è solo pizza e pasta.
Mi sento, davvero, privilegiata stasera come tutte le volte che chi ti accompagna ti conduce attraverso un viaggio fatto di sapori e non devi tentare la sorte scegliendo fra le proposte di menù che è una lingua a te straniera in tutti sensi.
Oramai nel sud del Giappone, nonostante mangi in due ristoranti italiani più alla moda e di tendenza, i cui chef qui sono delle star della cucina tricolore, non finiscono le sorprese in salsa nipponica.
È, giovedì, la sera del tifone, cena fuori Osaka annullata.
Giá a Tokyo mi avevano avvisato che era in arrivo sul Giappone il primo tifone, per la verità, pare, parecchio in anticipo. Infatti la stagione di norma comincia a fine agosto e, mi dicono, va avanti fino a fine ottobre. Le pazzie del tempo non fanno sconti ovunque, a quanto pare. A questo punto si decide di rimanere dalle parti dell’hotel.
Si va da un giapponese che cerca dei vini.
Il posto è piccolo e molto tradizionale. Ci accomodiamo sui cuscini vicino ad un tavolo basso e qui mi godo l’esperienza di essere come in una casa tradizionale.
Ovviamente siamo a piedi scalzi, così come la giovane cameriera che sembra faccia esercizio tutto il tempo, inginocchiandosi ogni volta che deve poggiare dei cibi in tavola.
Anche la ceramica è qui, come altrove ho mangiato, un tripudio di forme e colori.
Il vento continua a crescere, le tende si muovono un pochettino anche dentro, ma noi siamo come in un bozzolo a goderci le verdure di stagione, a cominciare dalle melanzane, pesci di acqua dolce come di mare, un’insalata di patate che a me ricorda un’insalata russa e per finire l’immancabile ciotola di riso bollito, in Asia è come per noi il pane in tavola, e la zuppa di miso.
È ora di andare, il tifone sta per arrivare ed è meglio rintanarsi in albergo.
Dalla finestra della mia camera non sembra un’esperienza scioccante, ma mi dicono che più a Sud ha fatto danni ingenti, tanti allagamenti tant’è che, l’indomani, alcune line del treno hanno ritardi importanti. Superata una certa soglia di precipitazioni, infatti, i treni sono obbligati per legge a procedere a velocità ridotta.
Sabato non è tutto ancora tornato alla normalità, come scopro avendo deciso, nel mio giorno libero, di tornare a Kyoto.
Kyoto, il cui nome significa capitale, è stata il centro del potere nel Giappone antico, prima che venisse fondata Tokyo, il cui nome sta per capitale ad est, e che, dunque, la geografia del potere in questo paese cambiasse.
A causa dell’antico splendore, ancora incarnato dalla straordinaria ricchezza di templi, qui i giapponesi, oramai molto occidentalizzati e secolarizzati, provano a rivivere, quando la visitano, le atmosfere passate.
Kyoto è anche la città con le manifatture più importanti di chimoni, che si possono pure noleggiare per fare una passeggiata d’altri tempi.
La guida racconta anche che in città ci sono circa una cinquantina di geishe, che appartengono, diversamente dal quel che erroneamente pensiamo, al fior fiore della società, oltre che ad essere l’élite artistica.
In serata, ma io sarò rientrata ad Osaka, visto che è in questi giorni ricorre una festa importante, si potranno vedere passeggiare lungo le vie più rinomate del centro antico.
Se è vero che Kyoto è città simbolo del Giappone tradizionale, è anche vero che è in pieno fermento culturale, grazie alle molte università e ai tanti giovani che ci vivono.
Non è però, assolutamente, un’oasi di vita tranquilla, perché la criminalità, pare, sia bene organizzata, la mafia giapponese viene citata dalla guida senza alcun imbarazzo.
È domenica, la mia settimana in Giappone è agli sgoccioli, ma so già che quando tornerò mi aspettano due importanti degustazioni grazie a Kawakami e Kazuyoshi.
Per dire arrivederci decido di concedermi un Boody Mary in salsa nippo, ovverosia con wasabi.