D. Mastroberardino

 

Era una domenica sera d’inizio giugno ed ero decisamente di cattivo umore. Il mio weekend nel Maine non era andato come l’avevo sognato… Quando avevo deciso di concludere a Portland la mia prima settimana di lavoro di questo viaggio negli States, avevo dato per scontato che avrei trovato una mite temperatura estiva, invece non è andata affatto così. Il lunedì precedente, mentre stavamo atterrando a Boston, io che non parlo tedesco, intuisco che avrei trovato 9°C.. Ho sperato, inutilmente, fosse un incubo, era il 1 di giugno in fin dei conti… L’annuncio in inglese non ha lasciato spazio all’illusione… Sono così piombata in quella che mi è sembrata la coda di un inverno potendo contare su vestiti e scarpe estive, un solo cardigan di lana, quello della foto, e un’ampia sciarpa che, nei programmi, doveva proteggermi dall’aria condizionata americana. Proprio vero: quando i viaggi ti portano così lontano da casa è d’obbligo un controllo delle previsioni del tempo prima di fare la valigia. Bene il lavoro, ma dire che aspettavo, impazientemente, di rifugiarmi al caldo è un eufemismo.

Dopo il Massachusetts, vado nel Maine, ma continua a far freddo e, alla fine, mi ammalo; devo così rinunciare anche aduna cena a base di aragosta,organizzata per m edalla deliziosa coppia che gestisce Lindenwood, il B&B di Mount Desert Island dove sono stata ospite. Per chi dovesse finire in quest’isola, lo raccomando, è un posto dove passare del tempo, meglio se la vacanza è una fuga romantica: è un classico B&B americano, ricavato da una vecchia casa, con accoglienti camere, ognuna una diversa dall’altra, colazione che ogni mattina ti sorprende con una proposta differente. L’omelette non ho potuto mangiarla, causa la mia precaria salute di quei giorni, ma i pan cake erano davvero divini, mai mangiato qualcosa di simile così soffice, spesso sono un po’ delle suole di scarpe.

 

 

Arriva il weekend, si rientra a Portland, ma visto il freddo e l’attacco febbrile dei giorni precedenti, non mi resta che il computer, sbrigare un po’ di arretrato del lavoro d’ufficio ed aspettare che la domenica sera arrivi per volare a New York.  Ma grazie alla giacca prestatami da Michael, la mia “guida” di quei giorni nel Maine, qualche giro in città l’ho fatto.

Portland è fra le mete estive del New England, una cittadina come tante, piena di ristoranti e negozi, da non confondere con Portland, Oregon sulla West Coast, una città molto più grande e meno turistica. Girovagando ho scoperto anche un painting bar, in pratica un posto dove si svolgono lezioni di pittura e, perché no, si fanno conoscenze fra un drink e un altro, dando sfogo all’estro artistico.

La domenica, in serata, vado in aeroporto. Qui faccio il secondo errore che, per poco, non mi costa la perdita dell’ultimo volo per la grande mela. L’aeroporto è piccolo, ricevo la carta di imbarco, Gate 1, ora lo so bene, ma non ci faccio troppo caso perché i Gate, nei grandi aeroporti cambiamo spesso, ed io controllo, direttamente, sui monitor. Si fa l’ora, sugli schermi il volo risulta in orario, ma il Gate non compare…

Penso che sarà in ritardo, in America con i voli della sera mi è accaduto spesso, ma qualcosa mi tiene sul chi va là. Cerco un inesistente punto informazione, ma alla fine trovo il Gate 1 dove l’imbarco del mio volo è quasi in chiusura.

Sono arrabbiata e non sono l’unica…però, a dirla tutta sono infuriata, soprattutto, con me stessa per non avere prestato la dovuta attenzione alla carta d’imbarco…mi sono sentita tanto una principiante.  Alla fine arrivo a New York. Il tassista, scopro presto, è egiziano, in questo periodo spesso gli egiziani entrano, incidentalmente, nella mia vita. Al binario dell’alta velocità, a Rho, il giorno dell’inaugurazione dell’Expo, avevo conosciuto un diplomatico, stavolta è il tassista. Salgo in macchina e già che mi riempie di complimenti spiegandomi quando mi trovi bella. Fra me e me penso, ho i canoni di bellezza rinascimentali, ma anche adatti a far colpo sui mediorientali. Ad un certo punto, mi sembra la corte un po’ troppo pressante per cui quando mi chiede se sono sposata, rispondo con calma e sicurezza di si.

Lui continua domandandomi: “da quanto?”

Ed io, sempre più presa dalla parte: “da 10 anni”.

E lui, va avanti a dirmi quanto mi trova affascinante, ma anche che ha rispetto per l’istituzione del matrimonio.Lo lascio parlare e scopro che è divorziato, con tre figli così come capisco che attribuisce la fine del suo matrimonio al fatto che la sua ex, in America, è cambiata..

Poi mi chiede: “ma sei felice?”

Ed io: “si tanto”. Continua: “Ma ti sei sposata per amore?”Ed io: “certo”.

E lui: “anch’io, ma poi è finito e sono qui a cercare nuovamente l’amore”.

Poi aggiunge: “sei ancora innamorata come il primo giorno?”

Ed io, sempre più nella parte: “l’amore cambia…si cresce.”

Poi mi fa vedere le foto dei suoi figli e mi chiede: “hai figli?”

Ed io, con prontezza di spirito, rispondo;“no”. Detto fra noi già non ho una fede al dito, non saprei come dirgli perché non ho foto dei pargoli. Bisogna pur sempre non esagerare se vuoi essere credibile.

Siamo quasi a Midtown e lui insiste per volermi lasciare il suo telefonino e la sua mail, nel caso lasciassi mio marito, il suono della mia risata l’ha incantato.

Finalmente arriviamo, ma devo anche riconoscere con tutta onestà che durante il viaggio mi sono sentita lusingata, mi sono divertita per quanto sembrava surreale la situazione così come mi ha stupito la mia capacità di tirarmi fuori dagli impicci, chiamiamoli così.

In quei 45 minuti, Omar, il tassista, mi ha fatto dimenticare il mal di stomaco, quasi fosse una medicina omeopatica…perché come si diceva una volta  “il riso fa buon sangue”.